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"Un soffio verso il cambiamento socio-culturale per eliminare le discriminazioni di genere e contrastare la violenza sulle donne"

Contro la violenza sulle donne al 70 festival di Sanremo

Rula Jebreal, la giornalista italo-palestinese nella prima serata del festival di Sanremo 2020, in onda martedì 4 febbraio, ha parlato di donne e della violenza che subiscono. Un monologo costruito su esperienze cha hanno toccato la sua vita, il dolore della sua famiglia e di tante altre donne che hanno subito violenze. Un racconto che ha emozionato ma che non ha rinunciato a elencare la dura realtà dei numeri. Con coraggio, con la voce emozionata e tremante di chi sente passare sulla pelle le parole che escono dalla sua bocca, Rula Jebreal ha letto il testo, su due grandi libri, uno bianco e uno nero.

Non solo la vita vissuta, la Jebreal, nel “tempio” della canzone leggera italiana, ha intrecciato nelle sue parole anche la vita raccontata dalle canzoni, fondendo vite e poesia in un crescendo di emozioni e commozione.

 

Il testo del monologo di Rula Jebreal

“- Lei aveva la biancheria intima quella sera?

– Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?

– Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?

– Se le donne non vogliono essere sfruttate devono smetterla di vestirsi da poco di buono.

Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi o perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o perfino troppo brutte perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta.

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te.

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. Noi bambine, tutte le sere, una per volta  raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri: spesso stuprate, torturate e uccise.

Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore, anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.

E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: negli ultimi tre anni sono 3.150.000 donne che hanno subito violenza sessuale nei posti di lavoro, negli ultimi due anni in media 88 donne al giorno hanno subito abusi e violenze, una ogni quindici minuti, ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise soltanto la scorsa settimana. E nell’80% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, il segno delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò
Quando la donna cannone
D’oro e d’argento diventerà
Senza passare dalla stazione
L’ultimo treno prenderà
”.

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha perso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato luogo della sua tortura. Perché mia madre Nadia fu brutalizzata e stuprata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Perché le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme divoravano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.

Sally cammina per la strada
senza nemmeno guardare per terra
Sally è una donna
che non ha più voglia di fare la guerra
Sally ha già patito troppo
Sally ha già visto
cosa ti può crollare addosso
Sally è già stata punita
Per ogni sua distrazione o debolezza
Per ogni candida carezza
Data per non sentire l’amarezza

Quante volte noi donne siamo state Sally? Mentre vi parlo c’è una donna che cammina in mezzo alla strada schiacciata dal senso di colpa senza avere nessuna colpa. Voi non avete nessuna colpa. Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, l’anno in cui sono nata io, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le canzoni che ho citato stasera sono tutte scritte da uomini, tutte. Dunque vedete è possibile trovare le parole giuste, è possibile raccontare l’amore, l’affetto, il rispetto e la cura. È questo il momento in cui quelle parole diventano realtà, il momento che quelle parole non sono solo cantate ma sono finalmente vissute ogni giorno. Per farlo bisogna lottare, urlare da ogni palco, anche quando ci diranno che non è opportuno.

Io sono diventata la donna che sono grazie a mia madre e a mia figlia, Miral, che è seduta in mezzo a voi. Lo devo a loro, lo dobbiamo a tutte noi, a una madre, a una collega, a una sorella al nostro paese, anche agli uomini perbene, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Adesso parlo agli uomini, adesso. Lasciateci essere quello che siamo e ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e in carriera. Siate nostri complici, nostri compagni. Indignatevi insieme a noi quando qualcuno ci chiede: “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”

C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo
Da molto lontano
”.

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e per celebrare le donne, ma sono qui a parlare delle cose di cui è davvero necessario parlare. Certo ho messo il migliore vestito. E in fondo il senso di tutto ciò è nelle parole giuste, nelle domande giuste. Domani chiedetevi pure come erano vestite le conduttrici di Sanremo. “Com’era vestita la Jebreal?”. Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”. Che non si chieda mai più.

Mia madre Nadia ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. Noi non vogliamo più avere paura. Non vogliamo più essere vittime, orfane, una quota. Vogliamo essere amate. Lo devo a mia madre, lo dobbiamo alle nostre madri, a tutte noi, a me stessa, alla nostre figlie. Nessuno può permettersi di toglierci il diritto di addormentarci con una favola. Vogliamo essere libere nello spazio e nel tempo, silenzi e rumore. Vogliamo essere questo: musica”.

Il video del monologo

07/02/2020

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